Un manoscritto ingiallito… lavato dalla luna

Un manoscritto ingiallito… lavato dalla luna

 

La pagina ha il suo bene solo quando la volti
e c’è la vita dietro che spinge e scompiglia
tutti i fogli del libro. La penna corre spinta
dallo stesso piacere che ti fa correre le strade.
Il capitolo che attacchi e non sai ancora quale
storia racconterà è come l’angolo che svolterai…
(Italo Calvino)

 

La storia, le storie…ci sono tante storie da narrare.

I racconti delle persone che incontriamo, diventano il tessuto connettivo del nostro modo di guardare le cose ed è questo probabilmente il senso profondo della vitalità che sta nel raccontarle.

Calvino a proposito dei classici, dice: “le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine. C’è una particolare forza dell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme”.

 

Questi sono alcuni dei miei semi:

Basta cedere alla disperazione, lamentarsi, lagnarsi: al dolore si finisce per abituarsi. E fa male. Fa male non essere perfetti. Fa male doversi preoccupare di lavorare per mangiare e avere un tetto. E con ciò? Sarà pure ora. Questo mese finisce il mio primo quarto di secolo, vissuto all’ombra della paura: paura che mi venisse a mancare una qualche perfezione astratta. Ho spesso lottato, lottato e conquistato, non la perfezione, ma l’accettazione del mio diritto di vivere nei miei termini umani, imperfetti.  (Sylvia Plath)

Il sapere si deve seminare come si semina il grano, il sapere non deve essere un’élite. Il sapere deve essere uso quotidiano e quando questo accadrà, allora saremo tutti uomini sulla terra.  (Andrea Camilleri)

A che servono le mani pulite se si tengono in tasca?  (Don Lorenzo Milani)

Io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e soltanto in queste ossa può essere vissuto.  (Franz Kafka)

Le malattie prima di essere un attacco di agenti esterni, sono un dialogo che facciamo con noi stessi, sono anche un’occasione per entrare in un’altra forma della nostra vita.  (Franco Arminio)

La mente non è un vaso da riempire ma un fuoco da accendere.  (Plutarco)

Le storie non vivono mai solitarie: sono rami di una famiglia, che occorre risalire all’indietro e in avanti.  (Roberto Calasso)

Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire. (Alda Merini)

Lei tolga la polvere alle farfalle e non volano più. Forse l’uomo con tutta la sua scienza non ha capito questo: che le farfalle non vanno spolverate.  (Alda Merini)

Abbiamo tutti i nostri momenti di debolezza, per fortuna siamo ancora capaci di piangere, il pianto spesse volte è una salvezza, ci sono circostanze in cui moriremmo se non piangessimo. (José Saramago)

Il modo migliore per spiegare la crescita è forse quello di ritenerla il raggiungimento di uno stato di equilibrio tra appartenenza e differenziazione. La crescita è un processo continuo nel quale si tende senza sosta a livelli più grandi di appartenenza e al tempo stesso di maggiore differenziazione. Tale oscillazione in avanti e all’indietro crea la flessibilità di espanderle e di svilupparle entrambe. Quanto più abbiamo il coraggio di appartenere, tanto maggiore sarà la nostra libertà di essere indipendenti. Più grande è la nostra capacità di differenziarci, più saremo liberi di appartenere”.  (Whitaker e Bumberry)

Il piacere ha bisogno di più tempo che non il dolore. Per ferire e fare del male si impiega quasi nulla: basta un’espressione del viso o anche solo una parola sbagliata. Per dare piacere ci vuole un po’ di più. Non basta una sola parola.  (Maria Grazia Cancrini, Lieta Harrison)

Osservo la vita dei miei figli crescere, diventare autonoma e farsi ai miei occhi sempre più misteriosa. Penso che questo mistero sia il marchio di una differenza che deve essere preservata e ammirata anche quando può sembrare sconcertante. Resto sempre stupito di fronte al loro disordine e alla loro indolenza. Infinitamente diversi da come ricordo la mia condizione di figlio. Eppure così incomprensibilmente uguali. Non pretendo di sapere o di comprendere nulla della loro vita, che giustamente mi sfugge e mi supera. Nel camminare fianco a fianco – nel silenzio dei nostri corpi vicini – percepisco il rumore del loro respiro come una differenza inesprimibile. È un fatto : ogni figlio porta con sé – già nel suo respiro – un segreto inaccessibile. Nessuna illusione di condivisione empatica potrà mai venire a capo di questa strana prossimità. La gioia tra noi accade proprio quando l’incondivisibile che ci separa genera una vicinanza senza nessuna illusione di comunione. I nostri figli sono nel mondo – esposti alla bellezza e all’atrocità del mondo – senza riparo. Sono – come tutti noi – ai quattro venti della vita nonostante o grazie all’amore che nutriamo per loro. Non so davvero nulla della vita dei miei figli, ma li amo proprio per questo. Sempre alla porta ad attenderli senza però mai chiedere loro di ritornare. Vicino non perché li comprendo, ma perché stimo il loro segreto  (Il segreto del figlio. Massimo Recalcati)

Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare finché non arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa.  (Albert Einstein)

Qualunque cosa sogni di intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia.  (Johann Wolfgang Goethe)

Non puoi insegnare qualche cosa a un uomo, puoi solo aiutarlo a scoprirla dentro di sè. (Galileo Galilei)

Per raggiungere il punto che non conosci devi seguire la strada che non conosci.  (S. Giovanni della Croce)

C’è qualcosa di più importante della logica: l’immaginazione. Se si pensa subito alla logica, non si può immaginare più niente.  (Alfred Hitchcock)

L’immaginazione è più importante della conoscenza.  (Albert Einstein)

Non cesseremo mai di esplorare e la fine delle nostre esplorazioni sarà arrivare al punto di partenza e per la prima volta conoscere quel luogo. (Thomas Stearns Eliot)

Non spegnere la domanda che l’altro pone con la sua esistenza.  (Massima ebraica)

Se non puoi essere una via, sii un sentiero. Se non puoi essere il sole, sii una stella. Sii sempre il meglio di ciò che sei.  (Martin Luther King)

La vita è un insieme di avvenimenti, di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme.  (Italo Calvino)

 

“Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti”

Erri De Luca, Izet Sarajlic

 

Dalla tua testa dalla tua carne
dal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole cariche di te
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole, amica.
Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole
erano uomini.

(Nazim Hikmet)

 

Ringraziare voglio il divino labirinto degli effetti e delle cause
per la diversità delle creature che compongono questo singolare universo,
[…]
Per lo splendore del fuoco
Che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico,
[…]
Per i fiumi segreti e immemorabili che convergono in me, […]

(Jorge Luis Borges)

 

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.

Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in superficie nel muro
oppure
(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter d’occhio.

Su un tavolo più giovane da una mano d’un giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.

È durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.

(Wisława Szymborska)

 

Fammi essere forte,
forte di sonno e di intelligenza
e forte di ossa e fibra;
fammi imparare,
attraverso questa disperazione,
a distribuirmi:
a sapere dove e a chi dare
a riempire i brevi momenti
e le chiacchiere casuali
di quell’infuso speciale
di devozione e amore
che sono le nostre epifanie.

(Sylvia Plath)

 

La semplicità
è mettersi nudi davanti agli altri.
E noi abbiamo tanta difficoltà ad essere veri con gli altri.
Abbiamo timore di essere fraintesi,
di apparire fragili,
di finire alla mercè di chi ci sta di fronte.
Non ci esponiamo mai.
Perché ci manca la forza di essere uomini,
quella che ci fa accettare i nostri limiti,
che ce li fa comprendere,
dandogli senso e trasformandoli in energia,
in forza appunto.
Io amo la semplicità
che si accompagna con l’umiltà
Mi piacciono i barboni.
Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle,
sentire gli odori delle cose, atturarne l’anima.
Quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo.
Perché lì c’è verità,
lì c’è dolcezza,
lì c’è sensibilità,
lì c’è ancora amore.

(Alda Merini)

 

Cercavo te nelle stelle
quando le interrogavo bambino.
Ho chiesto te alle montagne,
ma non mi diedero che poche volte
solitudine e breve pace.
Perché mancavi, nelle lunghe sere
meditai la bestemmia insensata
che il mondo era uno sbaglio di Dio, io uno sbaglio del mondo.
E quando, davanti alla morte,
ho gridato di no da ogni fibra,
che non avevo ancora finito,
che troppo ancora dovevo fare,
era perché mi stavi davanti,
tu con me accanto, come oggi avviene, un uomo una donna sotto il sole.
Sono tornato perché c’eri tu.

(Primo Levi)

 

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balia del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea

(Costantino Kavafis)

 

Ahimé! Ah vita! di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei di senza fede, di città piene di sciocchi,
di me stesso che sempre mi rimprovero (perché chi più sciocco
di me, e chi più senza fede?)
di occhi che invano bramano la luce, di meschini scopi,
della battaglia sempre rinnovata,
dei poveri risultati di tutto, della folla che vedo sordida
camminare a fatica attorno a me,
dei vuoti ed inutili anni degli altri, io con gli altri legato in tanti
nodi,
la domanda, ahimé, la domanda così triste che ricorre – Che cosa
c’è di buono in tutto questo, ahimé, ah vita?

Risposta

Che tu sei qui – che esiste la vita e l’individuo,
che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi
con un tuo verso.

(Walt Whitman)

 

L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi d’Appennino alla Romagna;
l’anguilla, torcia, frusta,
freccia d’Amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l’anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito;
l’iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?

(Eugenio Montale)

 

Perché tu mi oda
le mie parole
a volte si assottigliano
come le orme dei gabbiani sulle spiagge.

(Pablo Neruda)

 

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.

(Pablo Neruda)

 

Questa volta lasciami
essere felice,
non è successo nulla a nessuno
non sono in nessun luogo,
semplicemente
sono felice
nei quattro angoli
del cuore, camminando,
dormendo o scrivendo.
Che posso farci, sono felice,
sono più innumerabile
dell’erba
nelle praterie,
sento la pelle come un albero rugoso,
di sotto l’acqua,
sopra gli uccelli,
il mare come un anello
intorno a me,
fatta di pane e pietra la terra
l’aria canta come una chitarra.

(Pablo Neruda)

 

La gara è fra il coyote e una stella
a chi sa e vuol raccontare
il gruppo più fantastico di storie
che si possa ricordare
ma mentre il coyote
è un mancatore di parola e un mentitore
la stella che cadente è la più bella
con la coda che si muove con splendore
e su una pietra i due stan nel fuoco della notte
a raccontarsi a turno con le voci calde o rotte
la stella parla adagio e il coyote grida forte
buttati in questo gioco, per chi perde c’è la morte.

Ma col passar del tempo
la stella fa fatica a raccontare
e invece le parole del coyote corrono
come acqua di un fiume verde verso il mare
e mentre passa il vento o in alto o un’aquila si desta
e carica di voci, luci è tutta la foresta
la notte passa il cielo è rosso di mattina
finisce questa gara incominciata dal destino.
La stella allora si dichiara spenta e muore
ed ora è un pugno di cenere il suo splendore.
Perché vince il coyote
il racconto non lo dice ma lo lascia immaginare
la vita è fantasia, è coraggio,
è lotta dura con la voglia di inventare
e se la stella con la coda tante storie raccontava
la fantasia del coyote col suo fuoco la bruciava
e poi faceva ascoltare l’erba crescere sulla mano
e il grido della risacca di un prossimo uragano.

(Lucio Dalla, Il coyote)

 

 

Da 101 Storie Zen
(Nyogen Senzaky-Paul Reps)

 

Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji, ricevette la visita di un professore universitario che voleva studiare lo Zen.
Nan-in servì il tè. Riempì la tazza del visitatore e poi continuò a versare. Il professore osservò il tè che stava traboccando, fino a che non poté più contenersi: “E’ strapiena. Non ce ne sta più!”
“Come questa coppa”, disse Nan-in, “tu sei colmo delle tue opinioni e dei tuoi preconcetti. Come posso mostrarti lo Zen se non svuoti la tua tazza?”

Tanzan ed Ekido una volta stavano camminando lungo una strada fangosa. Stava ancora cadendo una pioggia torrenziale. Dopo una svolta, incontarrono una graziosa ragazza in chimono e fascia di seta, che non sapeva come attraversare la strada.
“Vieni, ragazza”, disse subito Tanzan. La sollevò tra le braccia e la trasportò al di là del fango.
Ekido non disse nulla fino a che, quella sera, non ebbero raggiunto un tempio. Poi non poté più contenersi.
“Noi monaci non ci avviciniamo alle donne”, disse a Tanzan. “Specialmente a quelle giovani e graziose. È pericoloso. Perché l’hai fatto?”
“Io ho lasciato quella ragazza laggiù”, disse Tanzan. “Tu te la stai ancora portando dietro”.

Buddha in un sutra raccontò una parabola:
“Un uomo che stava attraversando un campo incontrò una tigre. Cominciò a scappare, con la belva alle costole. Giunto ad un precipizio, afferrò la radice di un rampicante selvatico e si lanciò giù, oltre il ciglio. L a tigre lo fiutava dall’alto. Tremando, l’uomo guardò giù, dove molto più in basso, un’altra tigre l’aspettava per divorarlo. Solo il rampicante lo sosteneva.
“Due topi, uno bianco e uno nero, poco a poco cominciarono a rosicchiare il rampicante. L’uomo vide una succulenta fragola vicino a sé. Tenendo il rampicante con una mano, colse la fragola con l’altra. Com’era dolce!”

Daiju fece visita al maestro Baso, in Cina.
Baso gli chiese: “Cosa cerchi?”
“L’illuminazione”, rispose Daiju.
“Tu hai giù la tua stanza dei tesori. Perché la cerchi all’esterno?”, replicò Baso.
Daiju chiese: “Dov’è la mia stanza dei tesori?”
Baso rispose: “Quello che sta chiedendo è la tua stanza dei tesori”.
Daiju fu illuminato!
Da allora esortò sempre i suoi amici: “Aprite la vostra stanza dei tesori e usate quei tesori”.

Uno studente Zen andò da Bankei e si lamentò: “Maestro, ho un’ira ingovernabile. Come posso curarla?”
“Hai qualcosa di molto strano”, rispose Bankei. “Fammi vedere cos’hai”.
“In questo momento non posso mostrartela”, rispose l’altro.
“E quando potrai farlo?”, chiese Bankei.
“Sorge inaspettatamente”, fu la risposta.
“Allora”, concluse Bankei, “non può essere la tua vera natura. Se lo fosse, potresti mostrarmela in qualsiasi momento. Quando sei nato non l’avevi e i tuoi genitori non te l’hanno data. Pensaci”.